«En redescendant, le cœur léger, je sifflote gaiement. Je viens de gagner le ticket pour le cap Horn, l’Amazonie… Ah ! Connaître l’enfer vert, la chaleur suffocante, les moustiques, les papillons aux ailes moirées, manger de la soupe de perroquet Ara, de la queue de caïman, avaler des larves gluantes, découvrir les mers du sud, entendre rugir le vent des quarantièmes, entendre hurler celui des cinquantièmes en doublant le cap Horn, siffler le dauphins qui dansent au clair de lune, apercevoir les glaciers qui brillent au fond des fjords ! Je veux vivre à en crever…»
JMB

venerdì 15 marzo 2013

Naufragio sull'AltaVia: perdonami Wilson

Ieri sera ho rivisto una delle scene che io reputo una di quelle con la potenza cinematografica maggiore di tutti i film che ho visto.

Altrochè se è bella. Bella in tanti sensi. Commovente.
Mi ha fatto ripensare a quel giorno in cui un temporale mi ha fatto ritirare dopo solo due giorni dall'inizio della mia AltaVia n°1 valdostana (altavia), tentativo in autonomia e in solitaria. Per farla breve: avevo bivaccato con una tendina talmente vecchia che dopo due minuti di pioggia, l'acqua cominciava già ad entrare. Era notte, nei pressi del Lac de Barme. Il vento era forte, almeno questa era la sensazione. Lo sballottamento del telo leggero della tenda me lo lasciavano intuire. Ricordo solo di come stavo attaccato ai paletti perché il vento non strappasse via tutto. Ricordo le gocce d'acqua che scorrevano all'interno della tenda sopra la mia testa. E il fiato illuminato dalla frontale. Ma quello che mi ricordo è il pensiero che mi trapanava: dover rientrare anzitempo senza proseguire. Mi attaccavo ai paletti sperando che il temporale passasse in fretta, che non facesse troppo danno. Speravo che Qualcuno la facesse smettere - la montagna forse, ti rende agnostico-. Fattosta che mi sono addormentato e, senza vestiti nel mio sacco a pelo, ho atteso mattina...

Non è rimasto nulla di asciutto. Proprio come nel film, mi sono risvegliato e ho trovato il mio amico immaginario mentre galleggiava tra le onde: irraggiungibile... Il rientro è stato forzato dalla pioggia incessante del mattino, e dalla rottura della macchina fotografica, che è stata una batosta, moralmente parlando. Ingenuità forse? Si poteva fare diversamente? Certo, si poteva fare anche a meno di andare, quindi  non è questo il punto. Non è stato difficile rivestirsi con i vestiti inzuppati e gelidi. Il difficile è stato decidere di rientrare a casa. E' stato li, che ho ripreso la corda della zattera e ho lasciato andare Wilson.

Nel caso di Cast Away, Chuck Noland si era affezionato ad un amico immaginario fisico. Io mi ero affezionato a quello che stavo facendo. Che era diventato un tutt'uno: a modo suo, un amico immaginario in cui deporre e con il quale condividere sentimenti per non svuotarsi con la solitudine. Un amico insomma: qualcuno in cui si depone qualcosa di prezioso. D'altraparte il trekking in autonomo è una di quelle cose "che ti sottraggono dalla solitudine senza dare il conforto della compagnia".

La scena che ho rivisto mi ha ricordato come può essere paradossale il fatto che l'attaccamento a qualcosa che esiste solo nel mondo ideale ci possa spingere fino a rischiare di farci affogare, nella vita reale. Se lo perdi, perdi qualcosa di ideale, ma l'amarezza la si sente nel mondo reale. Un amico che se ne va e te che resti, o viceversa. Fattosta che è una parte di te che si allontana e che non percepisci più che nell'ora del ricordo...

Tristezza, amarezza, quindi, nel ricordo. Una parte di me resterà attaccata a quel paletto in quella tendina, boccheggiando e per sempre galleggiando, tra quella corda che sfugge e quel pallone che naufraga.
Perdonami Wilson.

JMBReRe

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